di Marianna Calovi
Ad essere un bambino non c’è scuola più bella di questa, penso tra me mentre guardo il documentario “Alta scuola. Storia di un’utopia concreta” (Trotzdem Film, 2016). Lo spazio familiare di una casa privata per fare lezione; un ambiente naturale da cartolina a fare da cortile per la ricreazione, con alberi da scalare, prati per correre dietro a un pallone e la neve, compagna di giochi invernali; nessuna verifica a sorpresa, voto o pagella; compagni di scuola di diversa età che imparano ad aiutarsi reciprocamente; il tempo libero pensato come occasione di crescita; maestri e genitori che collaborano nella formazione dei bambini.
Siamo a Peio, in Val di Sole, a 1580 metri di quota, il paese abitato più alto del Trentino. Qui risiedono stabilmente circa 400 persone. Il documentario – nato da un’idea di Giulia Mirandola e diretto da Michele Trentini – racconta l’esperienza più unica che rara di “Scuola Peio Viva”, una scuola elementare pluriclasse autogestita, “parentale” per la legge. Quando nel 2011, dopo la costruzione dell’Istituto comprensivo dell’Alta Val di Sole nel fondovalle a Cogolo, la Provincia sceglie di chiudere la scuola del paese, alcune famiglie prendono una decisione importante: convinti del ruolo vitale della scuola per il territorio e per la comunità, non avrebbero lasciato che i loro bambini abbandonassero il paese natio fin dalla tenera età. Così nasce la scuola parentale Peio Viva, grazie alla tenacia dei genitori di Davide, Fatima, Nicolò, Arianna, Agnese, Lorenzo, Omar, Nicola e Lisa, e grazie al prezioso aiuto del maestro della vecchia scuola Alberto Delpero e di alcuni insegnanti volontari.
Lo sguardo del regista Michele Trentini si muove in mezzo ai protagonisti di questa storia, osserva e documenta, lasciando allo spettatore il compito di valutare “Scuola Peio Viva”, di coglierne potenzialità e limiti. La serenità dei bambini è evidente, a scuola, nel tempo libero, e durante le attività organizzate per far conoscere loro il territorio in cui vivono, come nel caso della visita al caseificio turnario di Peio, l’ultimo rimasto in Trentino. La fiducia reciproca, lo spirito collaborativo, il senso di comunità, il dialogo rispettoso sono il motore che anima questa esperienza e, allo stesso tempo, l’effetto che produce, sia tra i più piccoli che nel mondo adulto.
Ma il merito del documentario è di essere riuscito a presentare tutta la complessità di questa realtà, dalla quale emergono questioni importanti e delicate, sulle quali lo spettatore è chiamato a riflettere. In particolare c’è il tema del modello pedagogico: da una parte la scuola istituzionale, focalizzata sulle performance, che promette una trasmissione di saperi approfondita per dare la possibilità a ognuno di aspirare a ciò che desidera. Dall’altra un modello di educazione e formazione impostato sui piccoli numeri, dove al centro c’è la collaborazione tra bambini di diversa età e la relazione di questi con i luoghi che vivono quotidianamente. Si può dire che un modello è più valido dell’altro? Il pieno superamento dei testi INVALSI da parte degli alunni di “Scuola Peio Viva” sembra dire di no. Questa questione ne introduce subito un’altra, quella del destino delle comunità montane. Come si può mantenere viva la montagna se la si svuota di una serie di servizi essenziali e in assenza dei quali si rischia di trasformare i piccoli paesi in dormitori? E come si possono costruire percorsi di sviluppo locale fondati sulla valorizzazione dei luoghi se quegli stessi luoghi vengono progressivamente svuotati? Da ultimo, ma non certo per importanza, c’è il tema della socializzazione. Studi pedagogici dimostrano che al di sotto di una certa consistenza in un gruppo la socializzazione è impossibile. Dal documentario emerge un interrogativo, a cui il regista sembra non voler dare risposta: è più importante creare le condizioni scientifiche adatte a favorire la socializzazione tra i bambini oppure coltivare le relazioni umane e sociali, quasi fraterne, di un gruppo ristretto e di questo con la comunità locale?
Oggi Scuola Peio Vivo non c’è più; trascorsi due anni scolastici il numero di bambini non è stato più sufficiente a garantire la continuazione del progetto, chiuso nel 2013. Rimane il lascito importante di un’esperienza che è patrimonio di un’intera comunità, oggi raccontata in un documentario che impone a chi lo guarda una riflessione sincera sul futuro della montagna e delle comunità che la abitano.
Articolo apparso sul numero 488 della rivista UCT – Rivista di Cultura Ambiente Società del Trentino