di Beatrice Barzaghi
Un documentario sul paesaggio terrazzato della Valle di Cembra.
Le immagini iniziali di “Contadini di montagna” ci proiettano in un mondo apparentemente lontano anni luce. Poi, piano piano, seguendo i lunghi movimenti di macchina, osservando i panorami ampi e i filmati di repertorio, scopriamo un racconto aristotelico girato qui in Trentino, a pochissimi chilometri dal capoluogo, che affronta con la leggerezza di un battito d’ali temi scottanti e assoluti.
Questo documentario del roveretano Michele Trentini è, non a caso, l’ultimo di una trilogia dedicata all’ambiente delle “terre alte” e ai suoi abitanti (dopo “Cheyenne. Trent’anni” del 2009, sulla vita di una pastora, e “Piccola terra” uscito nel 2012).
I protagonisti sono i membri di due famiglie di coltivatori della Valle di Cembra, ma un terzo personaggio irrompe sulla scena con decisione: è proprio il paesaggio, con le sue le aspre terrazze che ospitano le coltivazioni della vite e riempiono gli occhi a profusione.
L’incontro-scontro tra due generazioni – padri e figli – lascia trapelare la presenza di un ulteriore “terzo incomodo”: dai dialoghi emerge l’attenzione verso i nipoti, cioè il futuro di questo territorio.
Apparentemente, nulla è cambiato negli anni. Le scene tratte da tre – guarda un po’ – film degli anni Sessanta, “Uva sulla montagna” di Giuseppe Šebesta, “La strada del Vino” di Venceslao Moldavia e “Pane di pietra” di Vincenzo Terrigno e Terenzio Della Fornace, quasi si confondono con quelle contemporanee.
Ma la rivoluzione è appesa a un filo, il sottile filo che unisce, in un continuo tiro alla fune, i giovani ai vecchi contadini intervistati dal regista. Inquadrature fisse ci presentano i personaggi nel loro ambiente, ma potrebbero sembrare comodamente seduti sul palco di un teatro.
«[Io e mia sorella] Abbiamo fatto il corso a San Michele (all’Adige)…Siamo diventate imprenditori agricoli e abbiamo preso in mano l’azienda […] abbiamo apportato anche noi delle migliorie…se el ne lassa, ogni tanto [ride, rivolta al padre]».
La parola a Mario e alla figlia Noemi, l’una con lo sguardo rivolto verso destra, l’altro girato a scrutare l’orizzonte opposto, corrucciato e un po’ rassegnato quando gli tocca darle ragione. Là tra i loro campi, che non sono più di Mario, che non sono ancora di Noemi, in un botta e risposta in lingua locale (con sottotitoli) raccontano cosa significa scegliere di vivere per la terra, accettare consigli dai “tecnici”, innovare sistemi obsoleti, ma continuando a produrre buon vino di qualità.
«Non è che tutte le cose di una volta vanno bene. Studiandole, bisogna capire se vanno bene o no» è convinta Noemi, che ricorda pomeriggi faticosi, da ragazzina, passati a pulire i filari dall’erba incolta.
«Sai ben anca mi che el diserbante no l’è ‘na roba bela…» ribatte Mario.
«No!» insiste Noemi.
«L’è n’aiuto per chi che no ghe la fa, ma se te sì bon de farne a meno…» si convince il padre.
«Adesso con i trattori e con i campi fatti bene si taglia l’erba tra le viti e non serve più usare il diserbo», chiosa secca lei.
Lo scontro si inasprisce quando Noemi sposta lo sguardo dritto davanti a sé, verso lo spettatore e verso il futuro: «Secondo me dobbiamo andare a scuola di turismo. […] Le robe le gaven, l’è che non sen boni de valorizzarle…sen noi che sen orsi».
Il padre non è affatto d’accordo: «L’è pù agricolo qui!» dice paragonando Cembra alla zona di Pinè.
«E allora? La gente vuole andare dove c’è l’agricoltura! Perché no? L’è ben bel essere agricoli!» conclude decisa Noemi.
Quanto è bello fare gli agricoltori, ci comunicano entrambi. E trasmettono una sensazione di freschezza come l’aria che si respira tra le viti della valle di Cembra.
E i più giovani? I figli dei figli dei contadini di montagna? «Mi son lì. Se voleo, venì, che mi son lì», questa la filosofia della contadina Noemi, saggia come i padri dei padri.
E così i suoi tre ragazzi spesso la seguono nei campi. Pur liberi di scegliere la loro strada, al momento si divertono a guidare il trattore su e giù per le impervie terrazze, sotto lo sguardo attento di nonno Mario.
Un taglio un po’ diverso ha l’intervista a Giulio e Michele, intrisa della nostalgia di un tempo in cui era più semplice tenere anche il bestiame. Poi, le sovvenzioni per dismettere gli allevamenti, le quote latte, il letame che non si usa più. E un velo di malinconia per un paesaggio che si è fatto più monotono. Certo, si produce un ottimo Müller…ma le stalle?
Il racconto dell’incidente accorso a Michele con il trattore, macchinario ingombrante che sui sottili terrazzamenti stretti tra i filari è sempre a rischio caduta, fa venire anche a noi la “pelle di gallina”, come dice il vecchio Giulio.
Ma nel vedere le immagini conclusive dei bambini a loro agio nel territorio dei nonni, facciamo nostre le parole di Michele che, con verbo di dantesca memoria, ci riferisce come «oggi è più bello fare i contadini, perché bisogna ragionare».
Chi volesse “ragionare” sull’essere contadini di montagna, potrà apprezzarne la proiezione alla 63° edizione del Trento Film Festival il 2 e il 6 maggio.
“Contadini di Montagna”
Regia, fotografia, montaggio: Michele Trentini
Durata: 74’ – 2015
Produzione Trotzdem Film in collaborazione con Associazione Imperial Wines e Associazione LXL Lanterne per Lucciole
Reperibile in Dvd prodotto nell’ambito del progetto “Talking Stones. Il racconto dei paesaggi terrazzati”
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