– di Filippo Zibordi e Alessio Martinoli –
Dalle Dolomiti alla falconeria. Un Patrimonio per le future generazioni.
Dai Sassi di Matera ai trulli di Alberobello; dalla laguna di Venezia alle incisioni rupestri della Val Camonica; i centri storici di Napoli, Roma, Firenze, Siena, Pienza, San Gimignano e Urbino. Sono solo alcuni tra i 58 beni riconosciuti Patrimonio mondiale UNESCO in Italia: nessun altro Paese al mondo ne possiede un numero uguale (la Cina è seconda con 56, seguita dalla Germania con 51, Francia e Spagna con 49, India con 40 e Messico con 35). Secondo la Convenzione sulla Protezione del Patrimonio Mondiale culturale e naturale, adottata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura – UNESCO nel 1972, il Patrimonio rappresenta l’eredità del passato di cui noi oggi beneficiamo e che trasmettiamo alle generazioni future, fonte insostituibile di vita e di ispirazione ed è costituito da beni ascrivibili sotto il profilo culturale – opere e siti di valore architettonico, archeologico, storico, artistico, estetico, etnologico, antropologico o scientifico – o sotto quello naturale. Questi ultimi sono definiti come monumenti naturali, siti naturali o formazioni geologiche e habitat di specie minacciate di valore universale eccezionale dal punto di vista conservativo, scientifico o estetico. Su 1154 beni totali in 167 Paesi, solo 234 appartengono però al patrimonio naturale, a cui se ne aggiungono 39 di tipo “misto”, culturale e naturale insieme. La medesima spiccata tendenza a proteggere e valorizzare il patrimonio culturale più di quello naturale si riscontra anche analizzando ciò che l’UNESCO tutela nel nostro Paese: 53 beni sono ascritti al patrimonio culturale, mentre solo 5 hanno importanza dal punto di vista naturale. Sono le Eolie, isole vulcaniche parte di una catena sottomarina di rilievi lunga 87 km (inserite nel 2000), il Monte San Giorgio, straordinaria sequenza fossilifera marina del Triassico posta al confine tra Svizzera e Lombardia (inserito nel 2010), l’Etna, il vulcano terrestre più imponente d’Europa e dell’intera area mediterranea (inserito nel 2013), tredici antiche faggete tra cui spicca Sasso Fratino (inserite come bene seriale, insieme ad altre 81 foreste di 18 Paesi europei, nel 2017) e naturalmente le Dolomiti, entrate a far parte del Patrimonio nel 2010.
A partire dal 2003, tuttavia, l’UNESCO ha affiancato al Patrimonio Mondiale un Patrimonio Culturale Immateriale composto non da monumenti e opere d’arte quanto da tradizioni vive, conoscenze e competenze che meritano di essere trasmesse da una generazione all’altra. Si tratta di altri 677 elementi, in questo caso intangibili, che coinvolgono ben 140 Paesi del mondo: gli ultimi 48 elementi sono stati aggiunti nel corso della 17a sessione dell’apposito comitato, nel dicembre scorso, e includono tra gli altri la sericoltura tradizionale dei paesi dell’Asia centrale, la festa dell’orso nei Pirenei e la conoscenza dei maestri del rum chiaro cubano. Diversamente dai beni dell’umanità, che in alcuni casi come abbiamo visto esistono di per sé, a prescindere dall’uomo, come nel caso dei monumenti naturali, qui è evidente che si tratta di un patrimonio che esiste solo con l’uomo: immateriale e culturale. Appare allora interessante notare come gli elementi debbano ricadere in almeno uno dei cinque settori nei quali, secondo la Convenzione per la Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale ratificata dall’Italia nel 2007, si manifesta la rappresentatività della diversità e della creatività umana ossia: espressioni orali incluso il linguaggio; arti dello spettacolo; pratiche sociali, riti e feste; artigianato tradizionale; conoscenza e pratiche concernenti la natura e l’universo. L’UNESCO riconosce dunque che anche le conoscenze e le pratiche culturali legate all’uso sostenibile dei beni ambientali – come per esempio i muretti a secco e i terrazzamenti, la transumanza o l’uso tradizionale di piante locali a scopo medicinale – vanno preservate insieme alla biodiversità: sono state sviluppate dalle comunità interagendo con l’ambiente naturale e da questo sono state plasmate. “Salvaguardare una visione del mondo o un sistema di conoscenze è ancora più impegnativo che preservare un ambiente naturale”, sostiene l’UNESCO, ma “la tutela dell’ambiente naturale è spesso strettamente legata alla salvaguardia della cosmologia di una comunità e di altri esempi del suo patrimonio culturale immateriale”. Si tratta, peraltro, del medesimo approccio adottato dal programma “L’uomo e la biosfera” – Man and the Biosphere-MAB UNESCO, che in Trentino annovera la Riserva della Biosfera “Alpi Ledrensi e Judicaria – dalle Dolomiti al Garda”.
Girando la questione all’incontrario, così come esistono ambienti che sono frutto della mano dell’uomo, si può sostenere che ci siano patrimoni immateriali – tradizioni e pratiche – che derivano in linea diretta da siti naturali, come “emanazione” del bene stesso. Si pensi, a questo proposito alle monumentali Dolomiti, bene UNESCO composto da nove sistemi montuosi nelle Alpi italiane caratterizzato da una vasta gamma di colori dovuta ai contrasti tra le morbide fasce verdi dei boschi e delle praterie e le cime rocciose, il cui fascino e bellezza rappresentano il modello di uno specifico paesaggio montano. Ecco, è lecito pensare che proprio le Dolomiti, al pari di altri maestosi gruppi montuosi, abbiano attirato e ispirato i primi avventurieri nella “conquista” delle vette, facendo emergere il patrimonio immateriale dell’alpinismo, arte della scalata alle vette di alta montagna, in ogni stagione, su terreni rocciosi o ghiacciati, … fatto di abilità fisiche, tecniche e intellettuali, ma anche di equipaggiamenti e strumenti altamente specializzati, frutto di un sapere sviluppato nel tempo, come recita l’UNESCO.
Secondo la medesima logica, anche la falconeria, intesa come arte e pratica tradizionale di addestrare e far volare i falchi per catturare le prede allo stato naturale (anche se spesso erroneamente associata a rievocazioni storiche, spettacoli circensi o collezionismo di animali), emerge direttamente dai beni materiali – montagne o pianure – e dagli esseri viventi che li abitano, ovvero dall’interesse per la natura radicato nell’essere umano, in questo caso teso al reperimento delle fonti di nutrimento. È immaginabile infatti che l’osservazione dei rapaci abbia radici antichissime, quando esseri umani e falchi condividevano quotidianamente le aree di caccia: l’intuizione di sfruttare le abilità predatorie dei più abili volatori fu la sfida dei primi falconieri, che riuscirono a instaurare una simbiosi con un animale senza addomesticarlo.

Iscritta al Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità nel 2010, prima in 11 Stati e oggi in 24 tra cui l’Italia, la falconeria è tuttavia ancora oggetto di critiche e pregiudizi, legati al modo in cui verrebbero trattati gli animali, e soprattutto accusata di incentivare il prelievo illegale di uccelli a vita libera dai nidi. Sulla base dell’approfondimento condotto in occasione della redazione del Piano di Salvaguardia 2022-2028 (Falconeria: un patrimonio umano vivente – Piano di salvaguardia 2022-2028), è emerso tuttavia uno scenario ben diverso: occasionali casi di prelievo illegale esistono, ma il dato è molto calato rispetto agli anni 70 ed è del tutto estraneo alla falconeria propriamente detta. D’altra parte, a partire dal Peregrine Fund che dagli anni ’60 ad oggi ha allevato oltre 20 specie di rapaci rari e minacciati ed è stato pioniere delle tecniche di propagazione e rilascio di numerose specie, fino al recente progetto LIFE Lanner che si prefigge di incrementare la piccola popolazione di lanario nel Lazio, sono numerose le iniziative virtuose che vedono le competenze e conoscenze sviluppate nell’ambito della falconeria messe a disposizione per la salvaguardia della biodiversità.
Uno sforzo a cui probabilmente non possiamo fare a meno, se vogliamo arginare la sesta estinzione di massa. Uno sforzo che non a caso UNESCO ha deciso di valorizzare, insieme agli 676 beni immateriali, per salvaguardare una visione del mondo – conoscenze e pratiche tradizionali, cultura e identità delle comunità – seriamente minacciata dalla globalizzazione.
Foto di copertina: Dmitry Djouce