Dopo la presentazione di martedì 4 dicembre 2018 alla libreria due punti di Trento, pubblichiamo un capitolo del bel libro di Aldo Martina, “Nella selva oscura. Racconti naturalistici vissuti sul campo” (Edizioni del Faro), dove l’autore descrive le sue emozioni al cospetto della foresta di Paneveggio.
Foresta di Paneveggio: morbide superfici e tondi profili
di Aldo Martina
Quella di Paneveggio è una foresta eclettica, se la si osserva con animo letterario, sostanzialmente omogenea appare invece all’occhio del botanico o del forestale. Un dualismo solo apparentemente contraddittorio; che siano quelle di un umanista o di un naturalista, le emozioni in quella straordinaria e antica pecceta sono univocamente stimolate. È casa e rifugio millenario per una moltitudine di esseri, ma per una frazione infinitesima della sua esistenza e stata anche retrovia insanguinata per un’unica specie.
Sono appassionato di storia contemporanea, ed è per merito dello straordinario professor Romano, giovane precario di Storia e Filosofia, che dal quinto anno di liceo è andato sviluppandosi in me un interesse specifico per il primo conflitto mondiale, le sue cause, i suoi effetti. Ogni volta che metto piede in quella foresta, sento di attraversare un teatro bellico, di cui ho coscienza per le ancora numerose e silenziose testimonianze. Reperti, segni, cicatrici, emergono indelebili in molti angoli, mitigati ma non soffocati dal soffice lenzuolo dei muschi, sudario naturale pietosamente disteso su quell’immane tragedia, non tanto distante nel tempo ma abbastanza lontana nella memoria di molti, di troppi.
Quando accompagno escursionisti e visitatori nella foresta di Paneveggio, la prima cosa che notano (soprattutto i bambini, da acuti percettori sensoriali quali sono) è lo spessore e la morbidezza del muschio. Ben accudito da un suolo di madre porfirica e sostenuto dalla rete radicale superficiale degli abeti, le briofite ammorbidiscono tutte le spigolosità del terreno, delle rocce e delle nostre ossa. È qualcosa di sensuale ciò che provo quando mi ci sdraio sopra, e quando sono solo mi concedo un paio di minuti di quell’abbraccio. Chissà, magari chi ha inventato il memory foam si è ispirato proprio al muschio.
Da sdraiati si ha anche una migliore prospettiva nel vagare con lo sguardo lungo le chiomate highways della Valbona, il ridotto campo visivo viene compensato dalla minor diffidenza che tale posizione genera negli abitanti del bosco; è cosi che assisto al traffico discreto ma sostenuto delle ore di punta di quella vita selvatica. Cince indaffarate e chiacchierone, regoli e fiorrancini voraci e incapaci di fermarsi, un comune fringuello che, geloso, attira con sonora insistenza l’attenzione su di sé, un pezzetto di corteccia che si stacca da un tronco e contro le leggi della gravita sale invece che cadere, con la velocità e la destrezza di chi è nato per arrampicare. Versi sbuffanti di uno scoiattolo che, vedendosi privato dell’accesso alla sua mensa mattutina, tiene sotto controllo il mio corpo, disteso lì sotto.
Le prime ore del mattino e le ultime del pomeriggio sono i momenti migliori per fare la conoscenza del bosco. Si sa che esiste una relazione inversamente proporzionale, non casuale, tra i rumori del passaggio umano e quelli della vita animale. Il silenzio, non inteso in senso assoluto ma quello dovuto semplicemente all’assenza dell’uomo, cambia profondamente la fisionomia del bosco, e ne mette in risalto il carattere e le debolezze. È come se spiassimo qualcuno per vedere cosa fa di spontaneo, non sapendo di essere osservato. I naturalisti sono spioni conclamati e chi fra loro predilige l’andar per boschi e foreste, come ama fare il sottoscritto, innesca inevitabilmente una gara ludica con i super poteri degli animali. E ogni volta è una novità. Mi accorgo io per primo di un cervo? Riuscirò ad anticipare il passaggio del capriolo oppure sarò tradito dalla nocciolaia di guardia? Il delicato ticchettio che Io scoiattolo provoca arrampicandosi, mi aiuterà a sorprenderlo o la sua vista sarà più veloce della mia? Vedrò quel picchio rosso maggiore che sento vicino o continuerà a fare drumming sul dark side del tronco, quasi a prendermi in giro? La foresta di Paneveggio è rifugio discreto di stratificata ricchezza, altrimenti dove altro potevo trovare un nido di gallo cedrone con ben 11 uova? Un record per il territorio del Parco mi disse Luca R., da buon intenditore.
La foresta di Paneveggio non è però solo un condominio di vita animale, sa essere anche una cattedrale di giochi di luce; quel che basta per trascendere dalla fisica reale , fatta di incidenze e di rifrazioni, al mondo fantastico che suggerisce l’esistenza di folletti e genietti.
La mattina presto, in primavera come in autunno, l’aria è frizzantina, fresca e leggermente umida. Il pile è di sicuro conforto in quelle condizioni (tra l’altro lo preferisco di gran lunga alla rumorosa giacca a vento) e isola quanto basta dalle basse temperature dei 1500 metri di quota.
La conca di Paneveggio è circondata da un anfiteatro di rilievi, quindi il sole ogni mattina deve sollevarsi non poco prima di pervadere la foresta con i suoi messaggi di risveglio. Quando finalmente ciò avviene, le nebbioline sottili ne svelano la precisa geometria e i raggi inclinati di luce penetrano la fortezza delle colonne arboree. Minuscole gocce di condensa accendono delicate trarne imbastite da piccoli predatori con otto zampe; con le prime luci, gli alti e tondi profili arborei sostengono anche innumerevoli canti e suoni di siringe. Tutto contribuisce a rendere ideali le note di una futura e cosmopolita risonanza armonica: quella dei violini che hanno reso Paneveggio famosa nei secoli.
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(fotografia di Giulio Montini, archivio Trentino Marketing)