Tristi montagne smonta il mito della montagna felice

A partire dalla terribile elencazione di un secolo di drammi consumati nell’area alpina, l’antropologo Christian Arnoldi, nel suo volume “Tristi montagne”, ha elaborato un lungo racconto storico, che parla in modo inusuale della montagna e delle verdi vallate trentine. 

di Lara Zavatteri

La cultura alpina, le valli e i paesi di montagna visti attraverso gli occhi di chi ci abita e quelli dei turisti. La montagna come gigantesco parco divertimenti, come luogo di vita e archivio di memorie uniche e straordinarie. La montagna, infine, che genera disagio: il disagio di viverci. A partire dalla terribile elencazione di un secolo di drammi consumati nell’area alpina, Christian Arnoldi ha elaborato un lungo e affascinante racconto storico-antropologico, che parla in modo inusuale e fuori dagli stereotipi delle verdi vallate trentine.

“Tristi montagne”, edito da Priuli & Verlucca, premiato con il Premio Itas 2010 “Cardo d’Argento” è il volume dato alle stampe da Christian Arnoldi, ricercatore in Sociologia della devianza presso l’Università di Bologna e presso il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina di San Michele all’Adige. In questa intervista Arnoldi sintetizza i messaggi del libro e ci racconta la sua visione della montagna, dando qualche utile consiglio agli amministratori pubblici.

Arnoldi, perché il titolo “Tristi montagne”?
L’ho ripreso da “Tristi tropici” di Claude Lévi Strauss. L’idea è quella di smontare il mito della montagna vista solo come un luogo felice, anche se poi all’interno del libro non dò giudizi sulla montagna. Si tenta di porre qualche problema perché la vita in montagna, come in città, ha più facce complesse e non solo una.

Quando la montagna ha iniziato ad essere un luogo di solitudini e di drammi?
Probabilmente lo è sempre stata, soprattutto di solitudini. Gorfer scriveva della vita nei masi in cui le persone ereditavano una grande solitudine. C’è sempre stata. Forse l’elemento nuovo, nuovo per modo di dire perché ha almeno 50 anni, è che la montagna in alcuni periodi è un luogo di solitudine, in altri diventa una fiera. Si passa da un mortorio a un luogo di vivacità.

Cosa accade nei “periodi morti”, cioè quando manca la componente turistica nei paesi di montagna? In che modo incidono sui comportamenti del singolo e della collettività?
Riprende la vita del paese, fatta di ritmi. I bar sono gli unici luoghi di ritrovo, anche se non si va al bar per fare due parole ma per bere una birra. Prevale una certa cultura dell’alcol. La gente si chiude in casa. Nel libro parlo, infatti, di “rarefazione sociale”. Si ha una rappresentazione del territorio come limitato, anche dal punto di vista delle relazioni.

Durante l’inverno diventa più difficile spostarsi, soprattutto per i giovani e anche se sarebbe possibile si assiste ad una sorta di pigrizia nel doversi spostare. C’è un forte campanilismo tra paesi, penso alla val di Non che ha molti progetti per far collaborare i vari comuni. Ecco, se esistono questi progetti significa che normalmente queste collaborazioni non ci sono. Nei paesi la popolazione è scarsa, se ad esempio un ragazzo cerca un bassista per un gruppo è difficile che lo trovi ed esistono vincoli in cui ognuno ha il proprio spazio e i propri amici, ci si conosce tutti tanto che le conversazioni si limitano a volte a parlare del tempo. Quando invece inizia la stagione turistica ci sono iniziative, concerti, serate, apre tutto ed è più facile incontrare qualcuno. Si trasforma l’identità delle persone, puoi avere un’identità diversa con i turisti. Ad esempio in paese tutti conoscono quella persona perché “figlio di”, per i turisti può essere il barista, l’insegnante di canoa, la stessa persona in quel periodo parla correttamente l’italiano, dove nei periodi morti non parlare il dialetto è da “esclusi” e magari una lingua straniera. C’è questo passaggio tra bassa e alta stagione con i suoi adeguamenti, se uno ha gli strumento riesce a farlo altrimenti è difficile.

Qual è la diversa prospettiva sulla montagna da parte di chi ci vive e di chi vi arriva da turista?
Per chi ci vive la montagna è un luogo che continua ad avere significati diversi rispetto al turista. Uno che ci vive sa quali sono le proprietà, dove si può parcheggiare, dove sono le strade private. Per il turista è uno spazio unico, pittoresco, che si utilizza in maniera differenziata cioè parcheggia dove vuole, va a prendere il sole dove vuole, si muove come se fosse in un villaggio vacanza.

Anche il turismo può essere concepito in maniera diversa, meno invasiva per la montagna e la sua gente? Quale potrebbe essere il turismo del futuro?
Si comincia a pensare alla sostenibilità, ad un turismo più lento, poi però si fa il logo delle Dolomiti per attirare più gente. È difficile intravedere la strada, mi pare si seguano progetti definiti sostenibili ma poi c’è chi propone mega resort con un grande impatto ambientale.

Cosa intendi per “montagna puzzle”?
Le valli nel loro territorio hanno spazi di vita differenti. C’è lo spazio delle comunità locali, cioè dei paesi con i residenti, poi il villaggio vacanza con l’apertura degli hotel, con altre regole e altri abitanti. Forse anche lo spazio della memoria, il recuperare i vecchi sistemi silvo-pastorali come segherie, fucine, percorsi dei larici secolari, uno spazio che si ritrova nelle rievocazioni dei mestieri, che propone la montagna di una volta. Sono tre spazi sovrapposti con regole diverse chi ci vive le subisce tutte e deve sapersi adattate.

L’ultimo libro di Mauro Corona, “La fine del mondo storto” parla di una sorta di ritorno alle origini, nel momento in cui non esiste più il mondo come lo conosciamo, con le sue comodità tecnologiche, e l’uomo è spiazzato perché non sa più fare nulla. Non sa più coltivare un orto, lavorare con le mani… si è persa la memoria delle tradizioni e dei lavori e saperi di un tempo, più in città che in montagna, ma anche in montagna per quanto concerne le nuove generazioni. Cosa ne pensi?
L’idea di Corona tutto sommato contiene un po’ di verità, la creazione di ecomusei ad esempio è dovuta anche al voler trasmettere saperi che altrimenti andrebbero persi. Ma anche chi questi lavori li fa ha subito un processo di macchinazione, penso alla “caserada”, la lavorazione del latte che si svolge ogni anno a Vermiglio in val di Sole. Ecco, le vacche non si lasciavano mungere a mano perché ormai sono abituate alle macchine. Si tenta poi di recuperare anche per un uso turistico.

Quale può essere, secondo te, il futuro della montagna?
Credo che la montagna non debba essere considerata solo pittoresca ma si debbano fornire servizi, ad esempio nei trasporti. In città ci sono autobus notturni, in montagna no. In val di Fiemme e val di Sole sono stati creati dei discobus per i ragazzi, ma si tratta di esperienze legate all’emergenza, ad esempio al consumo di alcolici o al ritiro della patente, non è possibile che in una valle ci siano tre corriere al giorno. I servizi costano, ma chiudere le scuole o accorpare i Comuni non so se sia la soluzione migliore. Se si vuole una montagna abitata ciò implica dei costi, spero che le Comunità di valle servano anche a questo. I servizi dovrebbero essere anche culturali, con cinema, teatri aperti e non chiusi.

Colpisce, nel libro, la lunga trattazione dell’atteggiamento che definisci, usando un termine dialettale molto diffuso, “rispet”. Qual’è la sua peculiarità?
Il “rispet” è l’insieme delle norme degli abitanti e del territorio. Ogni volta che qualcuno viola queste norme si parla di “rispet”, nelle valli c’è un obbligo di riservatezza, prima di chiedere aiuto al medico o a qualche servizio ci si pensa, sui drammi, come il suicidio, si tenta di non dire nulla perché c’è ancora il tabù che il suicidio sia legato a tare familiari. Si ha paura di disturbare nel chiedere aiuto, c’è una chiusura, tutti stanno a casa propria e le regole devono essere mantenute per non cadere nel “rispet”.

Un’ultima domanda: hai qualche altro progetto editoriale in cantiere?
Sto lavorando a una ricerca sui nuovi abitanti della montagna, cioè gli stranieri, che devono essere considerati abitanti, gente che resterà, una ricerca che curo insieme a Marco Romano di Fondo. Un’altra è su come sono nati i costumi tradizionali in Trentino, prenderò in esame vari gruppi folk in collaborazione al Museo di San Michele all’Adige. Non so ancora però se diventeranno dei libri, magari solo dei report.

 


 

Video – CHRISTIAN ARNOLDI – 18 Film Festival della Lessinia