Il fotografo dei cormorani

di Stefano Albergoni

Un incontro con Henry Gottardi, le sue passioni e le sue fotografie.

Il cormorano (Phalacrocorax carbo) è un uccello strettamente acquatico, molto discusso, non solo in Trentino, a causa della voracità con cui si nutre di pesci, il suo alimento esclusivo. Un esemplare di taglia media può assumerne fino a 500 grammi al giorno. In tutta Europa, il cormorano preda oltre 70 specie ittiche, anche quelle maggiormente a rischio di estinzione (come il luccio, la trota mormorata, il persico, l’anguilla, il temolo). In generale però, prevale l’alimentazione di generi e specie largamente diffuse (come i barbi, i cavedani, le carpe).

Data la sua notevole capacità migratoria, il cormorano è riuscito a ricolonizzare il suo areale originario (tutto il Nord Europa) dopo lo sterminio causato dall’uomo e lo ha perfino espanso, arrivando nelle zone interne del Continente e fino alle aree Mediterranee. I primi avvistamenti in Trentino risalgono all’inverno 1993, con alcuni esemplari inizialmente limitati al lago di Toblino (fonte: agraria.org).

Henry Gottardi è un fotografo amatore di Mezzolombardo. Ha i suoi primi incontri con i cormorani nel dicembre del 2015 e da allora non ha più perso di vista questa specie, realizzandone immagini sorprendenti. Con lui abbiamo parlato della sua passione, la fotografia naturalistica e del suo soggetto preferito, i cormorani.

​​​​​​

Perché hai deciso di dedicarti ai cormorani? Cosa ti attrae di questa specie?
«Mi occupo da alcuni anni di tutta l’avifauna del nostro territorio, sia stanziale che migratoria e il cormorano mi ha subito affascinato per la sfida che rappresentava: non è facile, infatti, avvicinarlo, osservarlo e fotografarlo. M’impressiona anche la sua capacità di adattamento ai nostri territori, non tanto per gli inverni, quanto per le estati molto miti, soprattutto negli ultimi anni».

Da quanto tempo segui questa passione?
«Il primo incontro con i cormorani è avvenuto nel 2015. La passione per la fotografia è arrivata invece, profonda, alla fine degli anni ’90. Ho spaziato tra vari generi e solo da quattro anni ho trovato la mia strada: osservare e documentare il mondo naturale che ci circonda, mettendo sempre al primo posto il rispetto assoluto per i soggetti interessati e per il loro ambiente, soprattutto nel momento riproduttivo. Per questo genere di fotografia serve molta conoscenza della specie e del territorio, molte uscite dedicate al solo studio per capirne abitudini e movimenti».

Dove e come avvengono per la maggior parte i tuoi appostamenti?
«Il cormorano lo seguo soprattutto nella zona del Biotopo alla Rupe, dove faccio appostamenti statici che sono il mio forte. Poi lo seguo dalle foci dell’Avisio, fino al Lago di Santa Giustina. È molto scaltro, sensibile a ogni movimento. Non gode di un udito formidabile, ma l’occhio difficilmente lo tradisce. Bisogna essere sul posto al crepuscolo, mimetizzandosi al meglio. Nessun capanno fisso, niente chiodi, assi o viti. Solo una rete mimetica in poliestere e rami secchi reperiti in loco. Riesco a coprire un raggio di circa un centinaio di metri quadrati, e le situazioni che si presentano sono sempre differenti. Una volta sistemato nel punto prescelto non mi resta che aspettare, a volte anche 4-5 ore senza successo».

Come varia le sua abitudini stagionali il cormorano?
«Anche se il cormorano è un migratore, da noi ormai è quasi stanziale; è localizzato nei laghi di Toblino, Cavedine, Caldonazzo, Stramentizzo, Santa Giustina. Tra Toblino e Cavedine si è anche riprodotto, mentre gli altri alvei li frequenta per cibarsi. Vivono in grandi colonie, chiamate dormitori, dove si raggruppano per passare la notte, ammassati sugli alberi sulle sponde di fiumi o ai margini di laghi. In inverno sono molto numerosi. Alle foci dell’Avisio ne conto oltre 120 esemplari tra ottobre e aprile. I maschi adulti in febbraio cominciano la muta per gli accoppiamenti. L’abito nuziale –così è chiamato- dura un paio di mesi, fino all’accoppiamento. Molti di questi esemplari partono per la migrazione verso aprile, ma un piccolo gruppo rimane tutto l’anno (circa 20 esemplari) continuando a vivere sui nostri corsi d’acqua, soprattutto Avisio, Adige, Noce e fossa di Caldaro. Il gruppo invernale, invece, tra ottobre e aprile, compie ogni giorno una tratta specifica. Alle prime luci dell’alba un esemplare si stacca dal ramo del dormitorio chiamando a gran voce tutto il gruppo che, da li a poco, si dirigerà in massa -nella tipica formazione a V- verso il Lago di Santa Giustina, dove vi rimarrà fino all’imbrunire per cibarsi di pesce. Alla sera fanno ritorno al dormitorio di Lavis per la notte. Non tutto il gruppo compie questo spostamento. Circa 20 esemplari rimangono in zona, probabilmente si tratta di una rotazione, spaziando in Rotaliana, tra il Biotopo alla Rupe, la Rocchetta, l’Adige e l’Avisio».

Quali sono le situazioni fotografiche più interessanti che hai potuto cogliere?  Hai qualche aneddoto da raccontarci?
«Nonostante il tempo dedicato, non sono ancora riuscito a ritrarlo con il pesce nel becco; è una foto che vorrei ottenere, come documentazione sarebbe importante. Nel corso di questi anni le situazioni interessanti non sono mai mancate, oltre al fatto, ovviamente, che nell’arco di tempo di un appostamento le cose che ti accadono intorno sono a dir poco incredibili. Quando resti immobile, in silenzio, con il massimo mimetismo, sono gli animali a venirti incontro. Ricordo una situazione in particolare, all’alba, quando si è presentato su di un posatoio (tronchi caduti in acqua) un grosso esemplare con un occhio solo. Io ero circa a 20 metri, e riuscii a scattare molte foto approfittando di questo suo deficit. Un’altra volta vidi e fotografai un giovane esemplare alle prime prove di volo azzardare un atterraggio su un albero che non gli riuscì. Fallito l’aggancio, finì con il lungo collo su un altro ramo, quasi strozzandosi e precipitando in acqua. Pensai che non l’avrei più rivisto emergere, ma qualche secondo dopo riprese a volare».

 

Quali trucchi utilizzi per fotografare questa specie?
«Anzitutto ho imparato a contenermi. All’inizio, quando il cormorano mi si presentava davanti all’obiettivo, non resistevo. Lo fotografavo subito. Lui si spaventava e scappava. Ora la tecnica si è affinata: prima di scattare lascio che il soggetto arrivi e si accomodi al meglio. Bisogna sapere che ogni gruppo ha le sue “sentinelle”, che vanno in sopraluogo sia per cercare zone di pesca che per rilevare eventuali pericoli nelle vicinanze. Se vedo arrivare uno o due esemplari radenti al fiume in velocità medio bassa so che sono le “sentinelle” che si spostano muovendo continuamente la testa, scrutando il fiume e i lati alberati. Se non mi faccio vedere o sentire so che da lì a mezzora, massimo un’ora, il gruppo arriverà. Una volta arrivati i cormorani, aspetto che atterrino in acqua e lascio loro il tempo di mettersi a proprio agio, sfruttando i loro continui tuffi in immersione per aggiustare i miei movimenti. I cormorani sono poi soliti salire sul posatoio e allargare le ali per asciugare le penne, che sono permeabili (sfrutta questa sua peculiarità per effettuare lunghe e profonde immersioni; una normale impermeabilità non lo concederebbe). Deve quindi asciugarsi e anche velocemente, per non ritrovarsi inzuppato, e impacciato, in caso di necessità di fuga improvvisa.
Anche i rumori sono da tenere in considerazione, soprattutto se, come nel mio caso, ci si riesce a spingere ad una decina di metri di distanza e anche il click dell’otturatore può essere individuato. Quindi uso un’opzione per silenziare il rumore, oppure, come spesso accade, sfrutto il passaggio di qualche elicottero. Anche il rumore di piena, quando a monte viene aperta la diga e il livello dell’acqua si alza, crea un ottimo sottofondo, anche se io prediligo i momenti di chiusa, con acqua quasi ferma, per utilizzare al meglio colori e riflessi».

Da quanto tempo ti occupi di fotografia naturalistica e quali altri soggetti ti interessano?
«Mi occupo anche di fotografia macro, cercando farfalle e insetti, ma anche di flora, soprattutto orchidee e altre specie più o meno rare. Per quanto riguarda i volatili, l’anno scorso ho potuto seguire la nidificazione degli aironi cenerini, altro fantastico soggetto, anch’esso difficile da avvicinare. Ho avuto la fortuna di documentare una coppia di Smergo maggiore, mai visti nel Biotopo alla Rupe, per non parlare del duplice incontro con un esemplare di nutria, l’estate scorsa, che mi ha lasciato senza fiato. E poi germani, folaghe, gallinelle, tuffetti… uccelli sempre piacevoli da vedere e fotografare, così come i più piccoli pettirossi, merli acquaioli, usignoli, codibugnoli, cince, scriccioli e molti picchi che vivono sempre in Biotopo, soprattutto rossi e verdi e un paio di anni fa il più grande nero, anche se ne ho solo potuto ascoltare il canto».