Il lupo, una vita spericolata tra fantasie e realtà

di Aldo Martina

– Innumerevoli ricerche hanno approfondito le conoscenze sul lupo in tutto il suo immenso areale che corrisponde sostanzialmente all’intero emisfero settentrionale. Sono noti aspetti tra i più disparati, dalla biologia alla etologia e alla sua stessa gestione in relazione soprattutto alle attività umane, di fatto si tratta del grande carnivoro più studiato al mondo e ne conosciamo vita, morte e miracoli, resilienza e fitness ecologica per dirla in termini più scientifici. Ciononostante il lupo vanta ancora, inesorabilmente, il più alto numero di commenti, illazioni e sentenze emesse da presunti esperti sorteggiati a caso fra il grande pubblico.

Il lupo, dal mio punto di vista, non necessita di denigratori né di tifosi, avrebbe invece l’esigenza di essere compreso; per questo è necessario che se ne parli, senza i pregiudizi tipici delle opposte tifoserie. La domanda che quindi dovremmo porci è la seguente: saremo capaci prima o poi di considerare il lupo come “lupo” e non più come “problema”? Per trovare la risposta bisogna però prima risolvere un nostro difetto di carattere culturale: correggere l’approccio deleterio che ci porta a considerare come un disturbo, una inutilità, o addirittura un pericolo, gran parte di ciò che si muove e vive intorno a noi. Questo è il vero tema. Mantenere un sistema di visione antropocentrica, in base alla quale tutto gira intorno all’uomo, ci porta inevitabilmente ad una deriva dal senso della vita intesa in chiave ecologica. Se non capiamo che anche la nostra specie è tuttora parte integrante di un sistema complesso che si regge su equilibri delicati, la strada che le resta da percorrere sarà più breve dell’auspicabile. Attenzione però, non sto dicendo che non possiamo vivere senza il lupo, se domani scomparisse dalla faccia dalla terra la nostra esistenza non subirebbe grandi cambiamenti (a parte il senso di tristezza e di impotenza che alcuni di noi certamente proverebbero), quello che voglio sottolineare è che non possiamo sopravvivere se ad essere cancellata è l’idea che qualcosa di diverso possa esistere insieme a noi. È in questa idea che, secondo me, si racchiude il senso della vita, nella sua accezione ecologica come in quella etica.

Fino a neanche tanto tempo fa si credeva che il lupo fosse capace anche di ipnotizzare con lo sguardo. Poi, non avendo riscontrato prove oggettive che confermassero il possesso di questo super potere, abbiamo compreso che si trattava di pura e semplice superstizione (come era ovvio, d’altronde). Ecco quindi che, ad un certo punto, abbiamo cominciato ad usare l’analisi scientifica per dimostrare o rigettare l’attendibilità di una ipotesi ed essendo per definizione verificabile e ripetibile, l’approccio analitico si è dimostrato essere l’unico mezzo al quale è possibile attenersi per evadere dall’infido sacco delle più facili e comode congetture.

Se si chiede a coloro che asseriscono il rilascio di lupi in Italia chi ne sarebbe l’autore, la risposta che si ottiene è sempre generica, con qualche variazione sul tema a seconda dell’umore: l’ambientalista, l’animalista, lo zoologo, il WWF, l’Università, il Corpo forestale dello Stato (ora che non esiste più, mi aspetto che qualcuno prima o poi accuserà perfino la Benemerita), un nucleo segreto dell’amministrazione di turno. Tutte risposte sentite personalmente, vi assicuro. Poi, volendo andare un pochino più a fondo, se si domanda loro anche quale potrebbe essere il motivo per cui questo chicchessia ha interesse a reintrodurli, le risposte diventano confuse e paradossali: “…lo fanno per ottenere i soldi dall’Unione Europea che servono a stipendiare gli esperti”, la logica del ragionamento sarebbe questa: spendo soldi per liberare lupi così poi la UE mi dà i soldi per poterli studiare; è evidente che chi afferma l’esistenza di questa sorta di subdolo stratagemma, non ha la minima idea della differenza che intercorre tra scienza e malaffare. “Lo fanno per ridurre gli ungulati”, al limite questo sarebbe anche un buon motivo, se poi non venisse aggiunto “così i cacciatori non hanno più da cacciare”. Queste risposte, che rimbalzano continuamente anche tra i presunti organi di informazione, contribuiscono alla propagazione a tempo indeterminato di una insinuazione che è di assoluta infondatezza. Tale modo di agire ha poi come ovvia conseguenza la fomentazione del malcontento, l’inasprimento delle paure e, non tanto velatamente, la predisposizione al bracconaggio. Anche dal fronte opposto pervengono reazioni altrettanto astiose e di chiusura completa, verso la categoria dei cacciatori, degli allevatori, delle amministrazioni e chi più ne ha più ne metta. Quando si legge da una parte: “i lupi hanno SBRANATO un povero capriolo (o una povera pecora)” e dall’altra: “maledetta feccia umana, dovete sparire dalla Terra”, il messaggio finale che trapela è tanto inutile quanto pericoloso, in entrambi i casi. In generale non è una buona soluzione quella di dare spazio libero al sensazionalismo, riportando le notizie con leggerezza o condendole con palese intenzionalità. Quello che serve è invece leggere e ascoltare interpretazioni realistiche, ragionate, al fine di razionalizzare l’espansione geografica incontrovertibile di questa specie. L’approccio con cui si devono raccontare gli eventi che riguardano il tema-lupo deve essere quello razionale, se si vuole davvero comprendere da una parte il significato del suo ritorno sull’arco alpino e, dall’altra, mitigare i conflitti e le tensioni sociali. È molto difficile convincere chi nega per partito preso dell’enorme capacità che questo canide ha di recuperare spazi, non a caso in ecologia si usa il termine “resilienza” per indicare la facoltà di riprendersi di fronte a un’alterazione demografica anche molto marcata. Certamente non tutte le specie sono in grado di resistere agli eventi con la stessa efficienza, in generale riescono le più adattabili perché meglio predisposte geneticamente: il lupo è una di queste, non è colpa sua, né mia o di qualcun altro.

La sottospecie appenninica del lupo grigio, Canis lupus italicus, è sopravvissuta con un nucleo di un centinaio di individui o poco più sulle montagne dell’Appennino centro-meridionale (Abruzzo-Sila), nutrendosi di tutto quello che il territorio poteva offrire: selvaggina, animali domestici, rifiuti, scarti di macelleria, placente rinvenute nei pascoli. Negli anni ’70 dello scorso secolo, seguendo alcuni esemplari appositamente catturati e radio-marcati, i ricercatori avevano potuto verificare che questi animali attraversavano le strade dei paesi abruzzesi durante i loro spostamenti notturni, e in alcuni casi venivano localizzati nascosti a pochi metri da luoghi frequentati dall’uomo, in attesa del momento giusto per defilarsi e proseguire il cammino per raggiungere l’immondezzaio, lo stazzo con le pecore o la sicurezza del bosco. Questo avveniva in qualsiasi stagione, non necessariamente in inverno, tuttavia oggi leggiamo notizie allarmistiche che imputano al freddo e alla neve la discesa dalle montagne dei lupi: è un luogo comune anche questo (con la neve è solo più facile scorgerne le tracce), lui sta dove più gli conviene, montagna, collina, pianura, non è una questione di quota ma di condizioni favorevoli. Nel Lazio, ad esempio, nel 2013 si è formato un nucleo riproduttivo nella Tenuta agricola di Castel di Guido, tra Roma e Fiumicino, ad una quota di appena 40 metri s.l.m. Nel nostro paese è anche molto difficile, se non impossibile, per un animale selvatico muoversi senza imbattersi in qualche infrastruttura umana, una strada, un centro abitato, una casa. Durante i primi studi in Italia il lupo stava già modificando il suo areale, approfittando di una serie di elementi favorevoli: le normative di tutela, la maggior disponibilità di prede selvatiche (cinghiale, cervo, capriolo, muflone, camoscio), la diffusa presenza di discariche “a cielo aperto”, l’abbandono o la limitazione delle attività agro-pastorali. Grazie a queste mutate condizioni, nei primi anni ‘80 il lupo appenninico è arrivato in Francia, nel Parco Nazionale del Mercantour, dopo aver attraversato tutta la dorsale appenninica; agli inizi del ’90 dal versante italiano delle Alpi Marittime ha cominciato a diffondersi nelle regioni dell’arco alpino seguendo la direttrice ovest-est. Nei primi anni del 2000 è stata registrata la presenza sui Pirenei, al confine con la Spagna, dove era già presente una popolazione. Risale al 2012 la presenza documentata di una coppia al confine tra Veneto e Trentino, formata da una femmina della popolazione appenninica e da un maschio proveniente dalla popolazione slovena, quindi per la prima volta si incontrano individui di due popolazioni fino ad allora separate geograficamente. In questi ultimi anni la popolazione alpina è andata via via rafforzandosi e l’ultima stima riporta la presenza lungo la dorsale delle Alpi di 51 gruppi1. In sostanza questa nuova configurazione geografica è in atto da 40-50 anni e vede come protagonisti due diverse popolazioni geografiche a testimonianza di una graduale e progressiva riconquista dell’antico territorio. Di fronte ai fatti insorgono comunque i detrattori che imperterriti continuano a raccontare che non può trattarsi di un ritorno naturale bensì operato attraverso reintroduzioni clandestine. Mentre circa il ritorno naturale esistono precise documentazioni ultradecennali, valide per tutta l’Europa occidentale, quali sono invece le prove di un ritorno “manovrato”? Non ci sono.

A chi ritiene che un’espansione del genere non sia possibile, va ricordato che il lupo è un canide, esattamente come la volpe rossa, Vulpes vulpes, (altro carnivoro di grande successo ecologico), ma con un potenziale in più: la struttura sociale. Così, mentre una volpe adulta per vivere dipende principalmente da sé stessa, un lupo può contare sulle relazioni sociali che intercorrono nel suo branco: si aiutano, cacciano insieme, ognuno contribuisce alla difesa del territorio, della prole (esattamente come ha sempre fatto anche la nostra specie, perché stupirsi?). È vero che ci sono anche individui solitari, per lo più giovani in dispersione o i reietti, cioè quelli allontanati dal branco, gli emarginati (quante analogie…). I giovani lupi sono delle avanguardie: vagano, percorrono centinaia, migliaia di chilometri, finché non trovano un partner e uno spazio libero dove metter su famiglia (non è spesso così anche per noi? scavezzacolli da ragazzi, poi il partner, la famiglia, la sedentarietà). È proprio grazie ai giovani in cerca di aree vitali che la specie si è estesa, sono ben documentati movimenti così marcati: M15, noto alla cronaca come “Ligabue”, ha percorso 1300 chilometri in meno di un anno, tra Parma, Nizza e Cuneo; “Slavc” ne ha percorsi circa 2000 dalla Slovenia alla Lessinia. Molti studi di radiotelemetria hanno riportato spostamenti di 50 chilometri in una sola notte: tutto ciò è possibile perché il lupo è un trottatore e si muove normalmente ad una velocità di crociera sostenuta riuscendo a mantenerla per decine di chilometri, ovviamente non lo dico io ma il suo apparato locomotore.

Insistere con la storia della reintroduzione è paradossale, la cosa che deve essere ben compresa è che il mondo scientifico è ben consapevole che tra i principali motivi per cui non si effettuano reintroduzioni, soprattutto di mammiferi predatori, è che la popolazione locale, quella umana, non è detto che li accetti perciò risulterebbero alla fine vane. In Italia l’unico rilascio effettuato di un mammifero carnivoro è stato quello dell’orso bruno in Trentino con esemplari catturati in Slovenia allo scopo di prevenire l’allora imminente estinzione della specie sulle Alpi centrali (si trattò tecnicamente di un ripopolamento, non di una reintroduzione). Per quella operazione, avvenuta alle soglie del 2000, fu fatta, oltre alle necessarie valutazioni tecniche e scientifiche, anche un’indagine demoscopica per appurare l’opinione che avevano i residenti nel territorio interessato dal progetto (ricadente in tre regioni, Trentino Alto Adige, Lombardia e Veneto): l’operazione nel suo complesso fu vista favorevolmente dalla stragrande maggioranza degli intervistati (80%)2. Fatto importante fu che in quel caso non esisteva ancora nelle comunità locali un completo distacco emotivo, in quanto l’orso in Trentino non era del tutto scomparso e, alla meno peggio, resistevano ancora tre individui autoctoni. Nel caso del lupo la questione è ben diversa, parliamo di aree dalle quali mancava da 100-150 anni e quindi si era persa del tutto sia la memoria storica che quella emotiva di questo predatore. Per ripopolare l’orso bruno si sono prese mille accortezze, per coerenza e logica ci si aspetterebbe la stessa cosa anche per le reintroduzioni di lupo, invece non ve n’è traccia. Perché? Ancora una volta la risposta è la stessa: perché la reintroduzione non c’è mai stata.

È impossibile, oggi come oggi, e per di più in un paese ad alta densità abitativa come il nostro, trascurare uno degli aspetti più importanti su cui si basa il successo di eventuali progetti di reintroduzioni di fauna selvatica: l’accettazione sociale. Ad esclusione dei predatori, nel passato (anni ’50-’70 dello scorso secolo) rilasci di ungulati ne sono stati fatti a bizzeffe per iniziativa principalmente dei cacciatori, basti pensare al cinghiale, al muflone e al daino (in tutti e tre i casi venivano tra l’altro rilasciati esemplari non autoctoni, il daino addirittura è estraneo alla fauna europea). Oramai per tutte le specie, da quelle di interesse venatorio a quelle importanti per la conservazione, sussistono le stesse regole perciò non possono essere più fatte immissioni di propria iniziativa, in quanto il rilascio in natura di animali selvatici è una responsabilità esclusiva dello Stato che sovrintende attraverso un suo organo preposto (I.S.P.R.A.). Chi lo fa clandestinamente commette un reato penale.

Se le condizioni sono favorevoli il lupo torna con le sue zampe, è solo una questione di tempo, lo ha ben dimostrato ovunque. Ma mentre ancora alcuni media mantengono una linea di non accettazione del suo ritorno naturale nell’arco alpino, un altro animale ha dato prova di quel che sono capaci di fare i canidi: una volpe artica, Vulpes lagopus, seguita grazie ad un collare satellitare, ha percorso ben 3.500 chilometri, andando da una delle isole delle Svalbard (Norvegia) all’Isola di Ellesmere (Canada) attraversando la Groenlandia, in appena 76 giorni, mantenendo una media di 46 chilometri al giorno, tutto su ghiaccio. Una volpe artica pesa in media quattro chili, un lupo appenninico ne pesa dieci volte tanto: ecco di chi stiamo parlando. Concludo citando l’impresa di un’altra specie, sempre della stessa famiglia: lo sciacallo dorato, Canis aureus, arrivato in Italia negli anni ’80. Dopo un interminabile viaggio cominciato in Asia Minore è ora giunto ad occupare un areale che include anche l’Italia nordorientale4, recenti segnalazioni lo danno presente anche in Emilia Romagna e in Toscana. Ma questa è un’altra storia.


Aldo Martina è naturalista e scrittore. Il testo è tratto da “Non c’era una volta… Il mondo animale tra fantasia e realtà: miti, leggende, luoghi comuni e fake news” – © 2020 Edizioni del Faro

Le fotografie sono di M. Zonderling e G. Pretet, che ringraziamo.

 

NOTE

1 Life Wolf Alps, 2018.

2 Fuglei E., A. Tarroux, 2019.  “Arctic fox dispersal from Svalbard to Canada: one female’s long run across sea ice” Polar Research  2019, 38, 3512. htpp://polarresearch.net/index.php/polar/article/view/3512

3 Zeni M., 2016. “In nome dell’orso” Edizioni Il Piviere.

4 Lapini L., Dreon A.L., Caldana M., M. Luca & Villa M., 2018. “Distribuzione, espansione e problemi di conservazione di Canis aureus in Italia (Carnivora: Canidae)”. Quaderni del Museo Civico di Storia Naturale di Ferrara – Vol. 6 – 2018 – pp. 89-96.