La storia di Agitu, tra modernità e tradizione
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di Marianna Calovi

Allevatrice di capre mochene e casara, un sorriso contagioso con il quale affronta ogni giorno un lavoro nato dalla passione per gli animali, per la terra e per il cibo sano e una vita che sembra racchiuderne cento, tutte da raccontare. Lei si chiama Agitu ed è nata ad Addis Abeba, in Etiopia, nel 1978. Ha 19 anni quando decide di lasciarsi alle spalle i ritmi frenetici di Roma, dove frequenta l’Università, per trasferirsi in Trentino a studiare Sociologia dopo essersene innamorata nel corso di una vacanza. Oggi, a Valle San Felice in Val di Gresta, gestisce l’azienda agricola biologica “La capra felice”, dove alleva un centinaio di capre lasciate libere di pascolare nei prati e trasforma il latte crudo in prodotti di alta qualità utilizzando metodi di caseificazione tradizionali.

Anche Agitu fa parte di quella (nuova) generazione che ha deciso di ripopolare le terre alte, segnate dalla globalizzazione, dallo spaesamento e in parte dall’abbandono. Lo fa riscoprendo e riappropriandosi di mestieri e saperi antichi, praticando nuove forme di ruralismo attente ai principi della sostenibilità, valorizzando nuovi modelli di sviluppo che guardano al futuro nel solco della tradizione. La targa appesa nel piccolo caseificio la dice lunga sul suo modo di lavorare. Si tratta del “Premio della resistenza casearia”, riconoscimento di Slow Food a quei pastori e casari che continuano a produrre formaggi rispettando la naturalità e la tradizione, contribuendo a mantenere vive non solo pratiche e conoscenze, ma anche paesaggi, biodiversità e cultura del cibo.

Ho incontrato Agitu a Malga Pletzn l’estate scorsa, in mezzo ai pascoli verdi della Val dei Mocheni, dove si è spostata per far stare al fresco le sue capre. La malga è un porto di mare, continua ad arrivare gente, chi per comprare i suoi prodotti, chi “solo” per salutarla. Lei è un libro aperto, mi racconta la sua storia appassionante e a tratti sconvolgente parlandomi in italiano e in dialetto trentino; mi dice che vorrebbe imparare anche il mocheno. Ha le idee molto chiare, Agitu, e una grande consapevolezza riguardo alla portata culturale del suo mestiere. L’approdo in Val di Gresta non è casuale, così come non lo è la scelta di allevare capre di razza Pezzata Mochena. Ma andiamo con ordine…

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Dopo una lunga ricerca catastale, Agitu scopre che proprio in quello che è diventato il primo biodistretto del Trentino – la Val di Gresta – molti terreni erano stati abbandonati in seguito all’apertura delle fabbriche nel fondovalle. Beni di uso civico, ossia beni e terreni né pubblici né privati ma di proprietà della popolazione censita in un dato territorio, a disposizione della collettività per soddisfare bisogni di prima necessità, governati da un preciso regolamento di utilizzo. Essi affondano le proprie radici in prassi e diritti storicamente consolidati e oggi sono disciplinati da una legislazione specifica. Dopo essere riuscita a concludere un accordo con il comune, Agitu recupera 11 ettari di quei terreni abbandonati che le consentono di far pascolare per tutto l’anno in un ambiente incontaminato il suo gregge di capre, passato dai 45 capi iniziali ai 100 di oggi. Non ci sono stalle, ma capre che si spostano di pascolo in pascolo nutrendosi di germogli sani, mentre prati e boschi vengono concimati, puliti e preservati, riducendo il rischio di erosioni. La naturalità dei processi è fondamentale per Agitu, anche nella riproduzione e nella fase di caseificazione, durante la quale viene utilizzato solo latte crudo, senza pastorizzazione o innesti industriali, per produrre yogurt, formaggi freschi e stagionati con certificazione biologica. “Certo – mi dice – le capre danno meno latte rispetto ad altre specie ma la qualità è molto elevata e loro sono animali intelligenti, con cui è facile instaurare una relazione affettiva, tanto che ho dato a ciascuna di loro un nome”. Quello per le capre è un vero e proprio amore, probabilmente ereditato dalla nonna, pastore in Etiopia, dalla quale ha imparato i segreti del mestiere. Insieme alla Camosciata delle Alpi, Agitu ha scelto di allevare la Pezzata Mochena perché è una razza autoctona, resistente, che non richiede particolari attenzioni; ma anche, e forse soprattutto, perché a rischio di estinzione.

La nonna ricorre spesso nei suoi discorsi. Il legame con il suo paese d’origine è ancora molto forte e sembra racchiuso in un sentimento sospeso tra la nostalgia e la rabbia, tra la voglia di tornare e l’impossibilità di farlo per le ragioni che l’hanno costretta a fuggire in fretta e furia. La sua “colpa” è di aver lottato a fianco di contadini e pastori per opporsi al fenomeno del “land grabbing”, cioè l’accaparramento di enormi estensioni di terre coltivabili da parte di multinazionali e governi stranieri intenzionati a impiantare nel paese attività intensive e industriali rivolte ai mercati esteri. Contando che l’85% della popolazione etiope vive di agricoltura tradizionale e di pastorizia nomade si fa presto a capire la portata del disastro ambientale, economico, sociale e culturale che tale fenomeno sta producendo ai danni delle comunità locali.
Forse è proprio il valore che Agitu attribuisce alla terra che l’ha portato a prendersi cura – in Trentino – di un altro piccolo pezzo di mondo.

 


Articolo apparso anche sul n. 487 del mensile UCT – Rivista di Cultura Ambiente Società del Trentino