di Filippo Zibordi e Andrea Mustoni
Le prime nevicate ricoprono il terreno nascondendo le poche risorse alimentari ancora disponibili; gli spostamenti attraverso la coltre nevosa, sempre più difficoltosi, sono ridotti al minimo e volti alla sola ricerca di cibo. La neve e le temperature richiedono agli animali grandi quantità di energia per spostarsi e per la necessaria termoregolazione.
Se il mondo vegetale si è adattato a tali condizioni attraverso strategie di sopravvivenza, riconducibili ad una vera e propria pausa vegetativa, per gli animali ha inizio un lungo periodo di stenti e difficoltà che, alle nostre latitudini, può durare da due a cinque mesi a seconda della quota e dell’esposizione al sole. In questo senso si possono distinguere diverse fasce dette “altitudinali”, ognuna colonizzata da una grande varietà di specie animali e vegetali che contribuiscono alla diversità delle biocenosi alpine. Ogni fascia altitudinale possiede una propria comunità animale (zoocenosi) che è il risultato non solo di lunghi processi evolutivi, ma anche di grandi ondate migratorie che, nel corso della storia climatica europea, hanno interessato tutto il continente, mettendo le specie nordiche in contatto con quelle tipicamente alpine a seguito di successive espansioni e contrazioni dei ghiacci.
In particolare, a testimonianza delle glaciazioni quaternarie, oggi le nostre valli sono abitate da numerose specie di origine nordico-boreale, dette specie relitte (come la pernice bianca, la lepre bianca, la civetta nana, ecc.), che con il ritiro delle coltri glaciali hanno trovato sulle sole Alpi gli ambienti idonei alla loro sopravvivenza nell’Europa Meridionale.
Se alcuni animali hanno colonizzato le Alpi in virtù di condizioni climatico-ambientali simili a quelle tipiche di ambienti nordici, altri hanno “imparato” ad affrontare, oppure addirittura ad evitare, i rigori della stagione invernale.
Le specie a “sangue freddo” (eteroterme), come quelle appartenenti alle classi dei rettili e degli anfibi, in virtù della totale incapacità di regolare la temperatura del corpo e della conseguente completa dipendenza dalle condizioni termiche ambientali, rallentano il metabolismo per l’intera durata della stagione invernale, che viene superata al riparo in uno stato di “quiescenza invernale”. Al contrario, animali a “sangue caldo” (omeotermi), come i mammiferi e gli uccelli, hanno evoluto la capacità di regolare la propria temperatura corporea, adattandosi anche ad ambienti apparentemente inospitali.
È tuttavia evidente che la regolazione della temperatura corporea ha un costo in termini calorici e può diventare la causa più importante di dissipazione di energia per un organismo vivente. Anche per questo motivo, i mammiferi non possono raggiungere stadi di quiescenza profondi quanto quelli tipici degli organismi eterotermi. Nonostante questo, in modo simile agli anfibi e ai rettili, alcuni mammiferi sono in grado di nascondersi per lunghi periodi all’interno di tane e cunicoli, dove cadono in un sonno più o meno profondo.
In alcuni casi si parla di letargo: una condizione fisiologica che prevede la cessazione dell’attività alimentare, un abbassamento della temperatura corporea ed un forte rallentamento del metabolismo.
Tale strategia è attuata da un numero limitato di specie, che devono essere di dimensioni sufficientemente grandi da contenere la dispersione termica e consentire l’accumulo di sufficienti riserve di grasso: è quanto accade al quercino e alla marmotta. Essi trascorrono il periodo invernale al riparo nelle loro tane, rimanendo in una condizione di “sonno profondo” che dura generalmente da ottobre fino al successivo mese di marzo. Durante questa fase la respirazione, il battito cardiaco e la temperatura corporea si riducono sensibilmente per consumare il minor numero possibile di calorie.
I piccoli mammiferi (la maggior parte dei roditori e gli insettivori) hanno invece dimensioni troppo ridotte per poter rallentare o fermare il loro metabolismo perché la dispersione energetica sarebbe eccessiva e impossibile da compensare con l’apporto di nutrienti che durante il periodo invernale sono solitamente scarsi. Le specie appartenenti a questi gruppi faunistici superano quindi la stagione sfavorevole rimanendo in attività, nascosti in piccoli cunicoli protetti dal manto nevoso nei quali la temperatura ambientale rimane più stabile.
Ancora diverso è il caso dell’orso bruno, per il quale è più corretto parlare di ibernazione che di letargo propriamente detto: si tratta infatti di uno stato di sonnolenza che può essere frequentemente interrotto da fasi di maggiore attività. L’orso è infatti capace di destarsi in qualunque momento, abbandonando la tana se viene disturbato o se le condizioni ambientali interne alla cavità diventano poco adeguate. Va inoltre ricordato che per l’orso il periodo delle nascite (gennaio-febbraio) coincide con il riposo invernale della madre: è proprio all’interno della tana che essa dà alla luce i suoi cuccioli, i quali nascono molto piccoli ed incapaci di termoregolarsi in maniera autonoma.
Altri animali tipici dell’orizzonte alpino affrontano i mesi invernali in modo differente, mettendo in atto, a partire dall’autunno, una serie di strategie indispensabili per la propria sopravvivenza.
Tutte queste specie, tra le quali e solo a titolo di esempio si possono ricordare le lepri, i cervi, i caprioli e le volpi, cercano di aumentare lo strato di grasso, utilizzato come protezione dal freddo e riserva di energia. In molti casi è evidente anche a distanza il cambio della pelliccia che d’inverno diventa molto più folta, soprattutto grazie alla crescita di un fitto sottopelo. In modo analogo, gli uccelli mutano il piumaggio, rendendolo più soffice e adeguato alle esigenze della stagione.
Molti animali cambiano anche la propria colorazione, assumendo toni più scuri per aumentare l’assorbimento della radiazione solare (camoscio), oppure al contrario divenendo bianchi (lepre variabile, pernice bianca, ermellino) per favorire il mimetismo in ambienti innevati.
Un’altra strategia importante, adottata da numerose specie, è quella di effettuare delle migrazioni verso aree più calde, non occupate durante il resto dell’anno, generalmente disposte a quote inferiori e su versanti ben soleggiati.
Alcune specie effettuano migrazioni di ampia portata e hanno imparato a spostarsi, in alcuni casi, anche per distanze transoceaniche alla ricerca di condizioni ambientali climatiche ed alimentari più favorevoli. Le migrazioni più importanti e conosciute sono quelle dei volatili, tra le quali in Trentino la più nota ed evidente è quella delle rondini, conosciute come ambasciatrici della primavera.
Particolarmente affascinanti sono gli adattamenti che facilitano la sopravvivenza dei tetraonidi nelle difficili condizioni invernali. Ad eccezione della pernice bianca, che ha zampe piumate fino alle dita, ogni singolo dito di gallo cedrone, forcello e francolino è percorso sui due lati da una fila di fini estroflessioni cornee dette “pettini” che, aumentando la superficie d’appoggio e agevolando la camminata sul manto nevoso, fungono da vere e proprie racchette da neve. Sempre nei tetraonidi, la scarsa capacità di accumulo di riserve grasso e la conseguente esigenza di un efficiente isolamento termico ha portato allo sviluppo di un piumaggio particolarmente caldo. Tale proprietà è garantita dalle caratteristiche di ogni singola piuma dalla quale, all’altezza della base del rachide, se ne diparte una seconda, più piccola, soffice ed isolante.
Una tale varietà di soluzioni diverse al “problema inverno” è un chiaro segno di quanto possa essere dura la stagione invernale, nel contesto della quale anche l’uomo, con le sue molteplici attività, può essere un elemento importante e in alcuni casi provocare un disturbo significativo alla vita degli animali. In particolare i conflitti possono essere evidenti con le specie che, rimanendo attive durante le ore diurne, sovrappongono dal punto di vista temporale le loro attività con quelle umane. Nel tentativo di risparmiare le energie, molti animali riducono al minimo gli spostamenti, cercando cibo e rifugio nelle aree meno frequentate dall’uomo. In tali casi, se spaventati, gli animali sono costretti ad una fuga improvvisa e quindi ad un inaspettato dispendio di energie che, nei casi più eclatanti, può essere un danno per la loro stessa sopravvivenza.
Compiere escursioni d’inverno è quindi una responsabilità nei confronti della natura, che va affrontata con rispetto e consapevolezza degli effetti che possiamo causare.
Allo stesso modo, un intervento “attivo” volto a salvare o aiutare gli animali può avere conseguenze non solo positive. È il caso del foraggiamento invernale agli ungulati che, pur avendo apparentemente conseguenze utili per i singoli individui, può causare situazioni negative per le popolazioni. Le mangiatoie rappresentano infatti dei punti di attrazione che, favorendo anomale concentrazioni di animali, possono facilitare la reciproca trasmissione di malattie. Più in generale il foraggiamento contrasta gli effetti positivi dell’inverno sulle popolazioni, rendendole nel tempo sempre meno forti e in contrasto con altre componenti dell’ecosistema.
In linea generale, è infatti da evidenziare che se, da un lato, l’inverno può essere considerato un problema per il singolo individuo, per le popolazioni animali esso rappresenta un importantissimo fattore di regolazione.
La cattiva stagione è ad esempio un fondamentale fattore naturale di controllo delle popolazioni di ungulati selvatici alpini: l’inverno e la mortalità che esso causa contribuiscono in modo essenziale a contenere il numero di animali presenti, mantenendolo vicino alle disponibilità ambientali ed evitando quindi che un anomalo incremento possa alterare gli equilibri dell’ecosistema.
Il freddo è inoltre una condizione essenziale di vita per i relitti glaciali, tipicamente legati ai climi più rigidi e oggi in crisi probabilmente a causa del riscaldamento globale del pianeta.