(redazione)
La recente scomparsa di Gino Tomasi colpisce profondamente chiunque in Trentino si è occupato e si occupa di natura e protezionismo. Già direttore del Museo Tridentino di Scienze Naturali dal 1964 al 1992, Tomasi è stato promotore e coprogettista dei Parchi Naturali del Trentino, dirigente o presidente di alcune associazioni ed enti scientifici nazionali e locali nonché accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna e di altre Accademie culturali. Si è occupato di Geografia alpina, Limnologia, Cartografia e Protezionismo naturalistico, e ha firmato un centinaio di pubblicazioni scientifiche e divulgative su queste tematiche, tra cui alcuni volumi e una monografia naturalistica sui laghi del Trentino.
Nel contributo “Non resta che il ricordo” (pubblicato in Natura Alpina 1/2, vol. 61, 2010 edito nell’ottobre del 2012), all’interno di “Il consumo di territorio nel fondovalle del fiume Adige nel tratto compreso fra la foce del torrente Avisio e Rovereto sud”), ultimo suo scritto per la rivista, si leggono una sintesi del suo pensiero protezionista, la bellezza del suo approccio alla natura, ma anche il rimpianto e la nostalgia per quanto irrimediabilmente abbiamo perso con un uso spesso dissennato del territorio. Ringraziamo di questo contributo la Società di Scienze Naturali del Trentino.
NON RESTA CHE IL RICORDO
Gino Tomasi
Tra le varie difficoltà che spesso rendono incerta ed incompleta la ricostruzione sia delle vicende storiche sia della passata fisionomia degli ambienti naturali, due sono particolarmente rilevanti e non sempre tenute presenti nel bilancio delle ricerche.
La più frequente consiste nel constatare che molti fatti di natura individuale, sociale o fisica, nel mentre avvengono appaiono irrilevanti o comunque privi di importanza, perciò non meritevoli di essere fissati nella cronaca o nell’illustrazione. L’importanza e il significato del loro ruolo vengono in tal modo messe in luce in tempi largamente successivi, attraverso la interpretazione di quelle loro impronte che è possibile reperire, sovente labili o contradditorie.
Il secondo fattore, che potrebbe essere chiamato “lento avvertimento”, consiste nella mancata ricezione della continuità di minuscole variazioni di consistenza ed aspetto che si verificano in tutte le realtà ambientali. Esse, nella quotidianità di osservazione, non riescono a suscitare alcun particolare avvertimento. A ciò si aggiunge la considerazione della rapida evoluzione del pensiero collettivo, che attualmente costringe ad un sempre più incessante aggiornamento dei valori culturali coinvolti in ogni settore di giudizio.
Limitando questo ragionamento alle realtà naturali, tali considerazioni divengono quasi una regola nella ricerca dell’aspetto che aveva in passato il nostro paesaggio, soprattutto nei riguardi di quelle sue visualità che non rivestivano un ruolo prestigioso oppure erano destinate ad preciso utilizzo economico. Gli esempi sono oltremodo vari e riguardano pressoché la totalità del nostro territorio.
E’ poi irrinunciabile aggiungere che è sempre più esigua la schiera di coloro che, grazie alla età avanzata ed alla conseguente possibilità di attingere a vecchi ricordi di un loro passato, sono in grado di fornire vissute testimonianze. E’ però motivo di rincrescimento il notare che queste preziose osservazioni, pur nella loro accettabilità, costituiscono un apporto conoscitivo spesso carente di rigorosità e compiutezza, dato il loro supporto prevalentemente mnemonico o collezionistico, e soprattutto per l’esiguo numero dei testimoni, in gran parte con un indirizzo eterogeneo delle loro scelte esplorative.
Chi scrive, in fortunato possesso di ambedue i requisiti accennati, cioè età avanzata e memoria del dono di una remota giovanile curiosità, ebbe la possibilità, animata anche da passione collezionistica, di esplorare, ad iniziare dai tempi della seconda guerra mondiale e spesso in compagnia di illustri naturalisti, ambienti che ancora conservavano una rilevante integrità naturale.
Il settore naturalistico di preponderante richiamo era l’entomologia, attività questa che portava ovviamente alla frequentazione dell’ampia tipologia dei siti naturali ospitanti il ricchissimo numero di specie che costituiscono il mondo di tali invertebrati.
Indimenticabili le esperienze vissute nella varietà dei territori alpini, ma qui vorrei solo accennare a quell’affascinante teatro ambientale costituito dalle sponde dell’Adige, in contatto o prossimità alla città di Trento. Il fiume, allora non del tutto imprigionato da rigorosi argini, si prestava a gradevoli traversate a nuoto senza nessun disagio, data la sufficiente salubrità dell’acqua. Lateralmente al suo decorso esistevano estese anse, con un flusso idrico molto rallentato che davano ad esse una configurazione di piccoli laghetti. Sono ricordate soprattutto quelle presenti alla foce dell’Avisio e del Fersina.
A parte la fauna superiore, facilmente immaginabile nella sua composizione, rilevante interesse presentavano i minuti abitatori delle sponde fluviali, la cui tranquillità non sembrava essere turbata dalle continue oscillazioni del livello idrico. Vivo il ricordo degli invertebrati, che costituivano ormai scontate presenze. Nella ricchezza di specie presenti va ricordato l’infittimento numerico del Coleottero Carabide Nebria picicornis, che brulicava tra i sassi delle rive, mentre nell’acqua abbondava un Crostaceo Anfipode del Genere Niphargus.
Una zona con limitati utilizzi agricoli a Nord dell’abitato della Vela, denominata Ischia Podetti, era caratterizzata da una singolare ricchezza faunistica, favorita dalla tranquillità del sito e dagli apporti biologici consecutivi alle piene. Essa ben presto divenne nota, anzi ha costituito, per non pochi anni, un richiamo per gli entomologi, in gran parte tedeschi, che hanno voluto battezzare questo sito con il nome di “Käferland” (il paese dei Coleotteri).
Di questi interessanti popolamenti, la cui presenza e qualità, oltre al resto, è riconosciuta come fedele e raffinato indice per la valutazione dello stato di salute dell’ambiente, non esiste ormai più alcuna possibilità di osservazione. Attualmente tutta la zona è sommersa dai rifiuti urbani, e così è divenuta desolante ospizio di altre faune.
Se però il deludente bilancio della mortificazione ambientale e biologica di questo sito, non recuperabile ma ben definito nelle sue cause connesse alla inarrestabile e famelica dilatazione umana, può essere accolto con rassegnato rincrescimento, ben di altra portata è la constatazione che un vistoso impoverimento è esteso, in forme estremamente varie ma altrettanto preoccupanti, in pressoché tutti gli ambienti naturali a livello planetario.
Va in tal modo ammesso che la possibilità offerta attualmente di accostare le presenze naturali nella loro spontaneità di manifestazioni esonerate dall’influenza umana, è di giorno in giorno più limitata e preclusa. Ciò riguarda particolarmente i popolamenti faunistici e floristici, soprattutto quelle entità biologiche minute e generalmente neglette, che sono i rivelatori più diretti delle informazioni naturalistiche più raffinate.
Nel regno animale gli Invertebrati, quali insetti, crostacei, molluschi, plancton ecc. costituiscono un campo di studi più aperto alla ricerca di quello della fauna superiore, ad esempio gli ungulati, il cui “controllo” da parte dell’uomo attenua il loro messaggio ecologico, riducendo l’interesse alla spettacolarità delle loro apparizioni, così ambìte dal grosso pubblico.
E’ evidente che il giudizio sulla loro concentrazione numerica ed areale subisce quei condizionamenti che derivano dalla difficoltà di adottare metodi rigorosamente scientifici nell’impostare le valutazioni e soprattutto nel profilare motivazioni del fenomeno nella ricerca degli agenti fisici o antropici ritenuti responsabili. Gran parte della gente, ad ogni livello culturale, è poco preparata all’avvertimento dell’allarme, né trova alcun incentivo per approfondire le proprie conoscenze. Disattende così gli esseri viventi non portatori di particolari pregi visivi che li rendano più gradevoli (una farfalla sarà sempre più ammirata di uno scarabeo), oppure che rientrino nelle categorie che la vecchia nozionistica divideva in utili o dannose, mangerecce o velenose ecc., mortificando in tal modo una equanime concezione della natura nel suo armonico insieme.
Questa disattenzione trova parziale giustificazione nel fatto che l’idea protezionistica, che evidentemente è suscitata dall’accertamento di condizioni fisiche o biologiche dell’ambiente, è un fatto sociale di recente comparsa e di insufficiente sedimentazione culturale, e perciò suscita scompostezze ideologiche e contrasti interpretativi. Basti dire che gli stessi naturalisti di mezzo secolo fa ritenevano che il principale pericolo per la fauna fosse quello dell’eccessivo prelevamento da parte dei collezionisti. Anche le prime parziali disposizioni giuridiche a difesa, peraltro ancora vigenti, si sono basate su elenchi di specie in vario modo minacciate. Non deve perciò stupire il fatto che gli attuali allarmi, spesso travisatori della realtà, diano luogo a passionalità di giudizio più che ad impegno di maggiore possesso interpretativo
Nonostante questa barriera di difficoltà connesse con la vastità ed eterogeneità dei campi di indagine, dispersioni metodologiche di ricerca, penuria di cultori, carenza di dati del passato, si profila attualmente la possibilità di attingere a dati quantitativi sufficientemente dimostrati. I tentativi di quantificazione delle scomparse totali o forti impoverimenti non sono molti, ma tutti preoccupanti. Per quanto riguarda la nostra regione geografica va citata la “Lista rossa delle specie minacciate in Alto Adige”, edita nel 1994 dalla Provincia Autonoma di Bolzano, nella quale sono censiti ben 7398 specie animali (256 vertebrati, 6349 insetti, 793 altri gruppi), riscontrando una gradualità di minaccia, dall’estinzione alla rarefazione, riguardante 3064 specie, cioè del 41 % delle stesse. Va nel contempo tenuto presente che dalla data del rilevamento sono passati quasi venti anni, che hanno determinato un pesante peggioramento della reale consistenza faunistica. I dati altoatesini diventano indicativi anche per la nostra provincia, data la simile fisiografia dei due territori finitimi. Si deve però considerare che in Trentino il numero delle specie è ritenibile superiore, data la ricchezza ambientale e varietà climatica della fascia prealpina ed insubrica, ma nel contempo la valutazione dei danni può ritenersi superiore, a causa della maggiore rapidità con cui il territorio ha subito pesanti trasformazioni in questi ultimi anni.
Una sintesi dei dati acquisiti ci informa che, su di un totale di 7.400 specie, 258 sono considerate estinte, 255 sono in pericolo di estinzione, 442 sono fortemente minacciate, 1454 sono potenzialmente minacciate. Dunque circa il 40 % delle specie animali rientrano nella lista rossa, nonostante che il territorio preso in esame sia generalmente considerato come caratterizzato dalla presenza di vaste aree incontaminate. Pressappoco la spessa proporzionalità vale per gli insetti: su 6350 specie considerate, ben 2500 sono nella lista, e di esse 235 sono classificate del tutto estinte. Tra queste ultime è curiosamente riconfermato che le prime a scomparire risultano quelle specie indicate a particolare attenzione per la loro prestigiosità di aspetto, rarità, dimensioni.
Per quanto riguarda la individuazione delle alterazioni ambientali, l’indagine, che non si differenzia molto dalle analoghe riguardanti l’Europa media, le specie considerate estinte o minacciate rientrano nella seguente tipologia: a) quasi la metà di esse risente della distruzione dei biotopi naturali, dovuta al cambio di colture, scomparsa di superfici incolte, della vegetazione arborea ed arbustiva ripariale, delle siepi, del disordine estrattivo di cave ecc.; b) circa il 40% risente della coltivazione intensiva, cioè concimazione, dispersione di pesticidi, regimentazione delle acque ecc.; c) un terzo delle specie subisce danni causati dalla contrazione areale dei biotopi dovuta all’urbanizzazione ed ampliamento della rete viaria; d) un quinto risente dell’inquinamento delle acque; e) un altro quinto è interessato da altri fattori, spesso concomitanti: varie patologie, alterazioni climatiche, carico turistico, prelevamento a fini collezionistici, caccia, pesca ecc.
A questo esteso novero di cause individuate nella lista rossa atesina e basate su ricerche correlate alla concretezza dei rilevamenti, recenti osservazioni permettono di aggiungerne un’altra categoria, di gran lunga più sfuggente ad una analisi immediata, che si manifesta onnipresente e di provenienza spazialmente sia vicina che remota, costituita dalla diffusione nell’atmosfera e conseguentemente sul suolo, sulla neve e sulle acque, di elementi chimici provenienti dalle attività antropiche, industriali, agrarie, energetiche, la cui pericolosità è accertata qualora la quantità superi, o si presuppone possa superare in futuro, certe specifiche soglie. Questo ingresso nell’ambiente di ulteriori impreviste turbative è considerabile particolarmente subdolo sia per la sua dilatazione di presenza, sia soprattutto per la estrema problematicità nello studio e adozione di interventi arginanti o correttivi.
Per esemplificare questa situazione è citabile un fatto molto significativo riguardante ambienti finora celebrati perché considerati ancora indenni da alterazioni, quali i laghetti alpini di alta quota. In essi è stata recentemente riscontrata una quantità di DDT in misura 1000 (mille) volte maggiore di quella che potrebbe essere a basse quote, proveniente da paesi dove ancora esso è usato, veicolato da circolazioni atmosferiche e depositato per condensazione in queste acque caratterizzate da basse temperature. L’allarme, con le stesse modalità e quantificazioni, è stato avvertito contemporaneamente e recentemente in tre gruppi montuosi del mondo, dei quali il più vicino è lo Schwarzsee in Austria e gli altri in Iugoslavia e nelle Montagne Rocciose. Ciò ne denuncia la veridicità e la diffusione a livello mondiale. Che può fare il nostro naturalista tradizionale per arginare questa situazione ?
Il rincrescimento però si trasforma in angoscioso interrogativo osservando come in zone dove ormai è sempre più ridotta la frequentazione umana, l’alterazione e rarefazione della fauna minore è vistosa. Esempio tra molti: le vallette laterali della Val Genova, sempre meno frequentate dall’uomo e dove anche i vecchi sentieri stanno per essere cancellati, deludono chi in questi ambienti incontaminati spera di trovare un lembo residuo di territorio intatto. Anche qui la riduzione della fauna minore raggiunge livelli insospettabili. Di questi beni perduti nessuna nostalgia traspare nella pubblica informazione dei nostri osservatori ambientali, per il semplice fatto che le loro pudorose scomparse non hanno lasciato impronte. Si possono chiamare “le morti senza funerale”, perciò senza rimpianti.
Ogni verifica nel dettaglio di queste estinzioni e patenti impoverimenti porta a sorprese di chiaro accertamento ma di problematica interpretazione. Anche perché, ad eccezione degli ambienti acquatici che sono divenuti scontato ricetto di tutte le alteranti refluenze umane, anche quelli ambienti naturali che sembrano conservare una sufficiente integrità sono soggetti ad alterazioni del loro passato assetto biologico. Tra gli esempi più evidenti, estesi a tutte le quote e a tutta la varietà degli ambienti naturali ed antropici, è citabile la sparizione pressoché totale degli insetti coprofagi , il cui così vario e suggestivo aspetto morfologico e la rutilanza cromatica creavano la delizia degli entomologi ed inoltre il grande numero di specie costituiva facile dimostrazione di quella biodiversità che attualmente è indicata come elemento significativo di salute biocenotica. Del tutto analoga l’osservazione per gli insetti floricoli e fitofagi, la cui gradevole presenza un tempo ubiquista, è divenuta testimonianza di scomparse o di rare apparizioni. Del resto, al di là degli accertamenti specifici, è osservazione aperta a tutti quella di notare come ormai è rarissimo osservare specie un tempo del tutto comuni. Tra queste le non poche specie godenti di un aspetto prestigioso (o specie “carismatiche” come taluno ama definirle) quali Cervo volante, le dorate Cetonie, i Cerambicidi, le Calosome ecc., oppure anche la rara occasione di osservare qualche minuscolo vertebrato, quale la Raganella, il Ramarro ecc.
Se gli avvertimenti dell’opinione pubblica sono scarsi e casuali, risulta poco interpretabile il constatare come anche nelle sedi ufficiali degli studi faunistici non si dia che scarso spazio alla denuncia e quantificazione di questo fenomeno di contrazione. Ne risente anche la considerazione ed il modo con cui viene praticata la conoscenza di queste realtà. Con motivazioni di gratificante soddisfazione soprattutto collezionistica e senza pretese di alta specializzazione, era un tempo diffusa la pratica della raccolta di esemplari faunistici e floristici, attività che accomunava gli appassionati e si riversava nella pubblica conoscenza, spesso attraverso intese e collaborazioni con i Musei naturalistici. Attualmente questa consuetudine si è attenuata, data l’evoluzione della trasmissione delle conoscenze scientifiche, che lasciano minore spazio alle attività dilettantistiche. A ciò si aggiunge un diffuso senso di impotenza di fronte alle vistose turbative del nostro teatro ambientale, che porta a soffocare quel minimo di meditazione ed approfondimento che sono condizione per questi avvicinamenti alla natura.
Un interrogativo finale. Le estinzioni florofaunistiche, almeno quelle avvertite, sono il più delle volte citate unicamente quali segnali di alterazioni dell’ambiente ospitante. Dunque sono ritenute importanti perché rendono un servizio, cioè manifestano una “utilità”, sia pure a fini di conoscenza. Ma se provassimo, in nome della nobiltà culturale del gratuito, ad asserire che la loro scomparsa dallo scenario naturale amplifica quel crescente vuoto di empatia ed alleanza con le convivenze vitali che ci porta, su questo ormai malato pianeta, ad una sempre maggiore solitudine fisica culturale spirituale?